Andrea ha 27 anni ed è affetto da una malattia genetica rara. Andrea ha una passione, il giardinaggio, e un obiettivo: lavorare. L’ultima diagnosi funzionale, a cura dell’Ausl di Ravenna, ha però decretato che la “potenzialità lavorativa” del giovane è “quasi abolita o conservata per attività occupazionali non redditizie”. In poche parole, si legge sempre del documento rilasciato dalla Commissione per l’accertamento dello stato di disabilità e vidimato dall’Inps, Andrea è “attualmente non collocabile” ed è “adatto per attività manuali semplici e ripetitive con finalità socio-riabilitativa”.

Il referto si è abbattuto con la violenza di una scure su Andrea, che da un po’ di tempo era in prova presso un’attività del posto. Prova superata brillantemente, tanto che i titolari della ditta erano intenzionati ad assumerlo. Per poterlo fare, però, avevano bisogno della diagnosi funzionale che attestasse le abilità lavorative del ragazzo. Il verdetto, contrariamente alle aspettative, ha precluso al giovane ogni possibilità occupazionale.

Andrea non accetta l’idea di non poter più lavorare. La madre, Roberta Bellenghi, allora ha intrapreso una battaglia affinché suo figlio possa trovare un’occupazione che gli restituisca quella dignità di persona che la malattia tende a nascondere. Ma soltanto agli occhi di chi guarda la disabilità con pregiudizio, senza vedere la straordinaria ricerca di normalità che caratterizza le azioni dei ragazzi e delle ragazze diversamente abili.

“Quando sono andata al Patronato a chiedere spiegazioni, l’impiegata mi ha detto: signora, lei è fortunata perché almeno non gliel’hanno esonerato”, racconta Roberta che da un anno, da quando è andata in pensione, ha ingaggiato una vera a propria lotta con le istituzioni locali per garantire al figlio un’occupazione.

La rabbia di Andrea

“Il sogno di Andrea è sempre stato quello di avere un lavoro – spiega – Nel tragitto da casa al centro diurno che frequenta ci sono almeno tre o quattro aziende e tutti i giorni mi chiede quando possiamo fermarci perché gli piacerebbe sostenere un colloquio. Una di queste l’ho contattata, chiedendo che almeno conoscessero Andrea e gli dessero un’opportunità, ma non ho mai ricevuto risposta”.

Non c’è commiserazione nella voce di Roberta, né rassegnazione, solo la determinazione di una madre che prosegue la sua battaglia al fianco del proprio figlio.

“Andrea è arrabbiato – racconta ancora la donna – da quando è arrivato l’esito della diagnosi funzionale che gli preclude ogni possibilità lavorativa è diventato intrattabile”. Come chi ha visto crollare tutti i proprio sogni, come chi non può rassegnarsi a perdere la speranza.

“Quando gli ho dato la notizia eravamo in macchina e ha afferrato il volante rischiando di mandarci fuori strada. Da madre provo tanta tristezza. Come ogni altra donna, vorrei che mio figlio si sentisse realizzato, pur nel poco che ha. Invece tutto questo è umiliante. Quando ho aperto la busta contente il referto mi è crollato il mondo addosso. Mi è sembrato di rivivere il giorno in cui mi hanno comunicato che aveva un solo rene parzialmente funzionante. Ma non si sono arresa allora e non ho intenzione di farlo adesso”.

Contro l’assistenzialismo ottuso

La sua battaglia, Roberta Bellenghi l’ha ingaggiata contro il sistema dell’assistenzialismo ottuso, che pretende che i disabili si accontentino di ciò che viene loro dato senza chiedersi quali siano le ambizioni e le potenzialità dei tanti ragazzi e ragazze con disfunzioni fisiche o cognitive. Ciò significa che, di fatto, le persone con disabilità vengono discriminate anche nelle loro possibilità di scelta e nel loro diritto al lavoro.

“Con la diagnosi attuale, Andrea potrebbe soltanto svolgere attività con associazioni di volontariato, affiancato da un tutor – prosegue Roberta – Tuttavia, è chiaro che chi ha firmato la diagnosi funzionale non conosce Andrea né si è preso la briga di ascoltarlo, esaminarlo, valutarne le reali capacità e motivazioni. Sono convinta che tutto ciò serva soltanto ad alimentare la macchina mangiasoldi dei centri diurni, delle associazioni e delle varie figure professionali che ruotano attorno al mondo della disabilità. A pochi di loro interessa veramente far fare un salto di qualità a questi ragazzi, fare in modo che si sentano realizzati e si rendano indipendenti”.

Roberta mette in evidenza anche un altro problema, con il quale tutti i genitori di ragazzi disabili si trovano a fare i conti. “Al compimento dei 18 anni – spiega – è come se la malattia scomparisse magicamente. Non ci sono più forme di assistenza e nessuno si chiede cosa sarà dei nostri figli quando non ci saremo più. Ora si fa un tentativo di pianificazione con il progetto ‘Dopo di noi’ ma non basta”.

La battaglia di Roberta con le istituzioni locali

Per questo motivo, Roberta si batte per dare un’opportunità ad Andrea. La sua non è soltanto una lotta ideologica ma sul campo. “Ho a che fare con due sindaci e con una lunga lista di assistenti sociali della AUSL. Chi potrebbe fare davvero qualcosa è Davide Ranalli, primo cittadino di Lugo dove Andrea frequenta il centro diurno. A lui ho chiesto la possibilità, insieme ad altri genitori, di prendere in gestione dei terreni comunali per mettere su un’attività che coinvolga i ragazzi disabili nella gestione, ad esempio, di un orto e di un ristorante. Le idee sono tante ma da sola non posso farcela e, al momento, né Ranalli né Luca Piovaccari, il sindaco di Cotignola dove siamo residenti, sembrano disposti a darci una mano. Tra l’altro, Piovaccari è anche responsabile del sociale per l’unione dei comuni del territorio”.

Come ha ripetuto più volte, Roberta non si arrende. “Continuerò a bussare alla loro porta finché non ascolteranno la mia voce, quella di Andrea e di tanti ragazzi come lui che chiedono soltanto che venga rispettato il loro diritto al lavoro e riconosciuta la loro dignità di persone”.